LA TASSAZIONE DEGLI IMMOBILI ALL’ESTERO ED IL QUADRO RW DEL MODELLO UNICO

Sommario: Introduzione: Oggetto del lavoro e suoi confini; 1. I principi di tassazione dei redditi nella tassazione degli immobili; 2. La tassazione degli immobili detenuti all’estero; 3. L’applicazione delle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni; 4. La disciplina del quadro RW del modello UNICO; Bibliografia.

INTRODUZIONE: OGGETTO DEL LAVORO E SUOI CONFINI

Con il presente lavoro s’intende affrontare l’analisi della normativa italiana che prevede e regola l’imposizione sugli immobili (quali indici di capacità contributiva) nei casi in cui questi sono situati all’estero.

Si tratta, pertanto, di una disciplina di “diritto tributario internazionale”, ovverosia di quel ramo del diritto tributario interno (dunque nazionale) che si occupa della tassazione di fattispecie che si verificano al di fuori dei confini nazionali ma che, attraverso l’adozione dei criteri di collegamento di tipo personale sono attratti nell’area impositiva dello Stato italiano.

Trattandosi di fenomeni transnazionali, è di tutta evidenza che tali fattispecie implicano la verifica dell’eventuale esistenza di norme di diritto internazionale (queste classificabili propriamente nell’ambito del “diritto internazionale tributario”) di tipo convenzionale che prendano in esame tali ipotesi; in tal caso, come si cercherà di evidenziare nel corso del presente lavoro, si pongono non pochi problemi di relazione tra le stesse norme.

Nel lavoro che ci si accinge a compiere si darà anche conto del fatto che l’effetto più evidente del descritto fenomeno transnazionale è il verificarsi piuttosto frequentemente di una doppia imposizione giuridica rispetto alla quale sia le norme interne che le norme internazionali cercano esplicitamente di porvi rimedio.

Lo studio sull’imposizione degli immobili all’estero, in verità molto viva nel periodo del c.d. Scudo fiscale (previsto dal Capo IIII del D.L. 25 settembre 2001 n. 350) ma successivamente quasi abbandonato dalla dottrina, giustamente interessata maggiormente ad altri fenomeni internazionali più esposti a modifiche normative (come le fattispecie più puramente “finanziarie”), sicuramente tra breve dovrà essere ripreso.

Si ritiene, infatti, che all’analisi delle disposizioni in materia di tassazione degli immobili all’estero dovrà porsi nuova attenzione non solo da parte degli accademici ma anche dal mondo professionale, al fine di instaurare un dialogo paritetico con l’amministrazione finanziaria, sempre più attiva nella lotta all’evasione fiscale.

Si vuole sottolineare, in particolare, l’avvio di una maggiore cooperazione tra le Amministrazioni fiscali degli Stati, non solo ai fini IVA ma anche ai fini delle imposte dirette (ci si riferisce al D.Lgs. 19 settembre 2005, n. 215), che consente all’Amministrazione italiana di conoscere dell’esistenza e della riferibilità a propri residenti di beni immobili situati fuori dai confini nazionali. Pertanto si riduce sempre più quella zona d’ombra in cui i contribuenti, a volte, si sono posizionati, nella consapevolezza (ora da rivedere) dei limiti d’indagine delle passate Amministra-zioni fiscali.

Per dovere di completezza si ritiene necessario, infine, puntualizzare che l’analisi delle disposizioni di legge è svolta con riferimento alla disciplina prevista per le sole persone fisiche al di fuori dell’esercizio di imprese o di arti e professioni. Si tratta di una scelta dettata dall’economia del presente lavoro ma che, a ben vedere, non limita l’ampiezza degli argomenti che saranno trattati, potendo gli stessi riferirsi in modo quasi integrale a tutte le altre fattispecie soggettive.

1. I PRINCIPI DI TASSAZIONE DEI REDDITI NELLA TASSAZIONE DEGLI IMMOBILI

Il sistema impositivo attualmente vigente in Italia, in relazione all’imposta sul reddito delle persone fisiche, individua all’art. 1 del DPR n. 917 del 1986 (TUIR) il presupposto materiale della tassazione nel “possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6”.

E’ appena il caso in questa sede di rilevare come attenta dottrina ha precisato che la dizione usata dal legislatore, benché certamente infelice, non sottintende il concetto di “possesso” nel senso del diritto privato, ma solo una relazione materiale tra il soggetto ed il reddito.

In coerenza con i criteri di efficacia nello spazio delle disposizioni di legge, rinvenibili nel nostro ordinamento ed in base ai quali le norme esplicano efficacia cogente nei limiti del territorio in cui l’autorità emanante l’atto ha la sovranità, il legislatore ha adottato per le imposte personali il criterio della residenza per ricollegare i redditi al territorio dello Stato.

Pertanto ai sensi dell’art. 3, comma 1, del TUIR i soggetti residenti nel territorio dello Stato vengono tassati per tutti i redditi quale che sia il luogo di produzione (c.d. worldwide taxation principle o principio di tassazione del reddito mondiale) mentre nei confronti dei non residenti l’imposta è applicabile limitatamente ai redditi prodotti in Italia (criterio di collegamento reale).

Nella sua pur semplice formulazione l’art. 3 citato pone non pochi problemi per quanto riguarda la esatta individuazione delle condizioni in base alle quali un soggetto possa considerarsi residente o non residente nonché un reddito possa considerarsi o meno prodotto nel territorio dello stato.

A questo proposito l’art. 2 del TUIR prevede che un soggetto si consideri residente in Italia quando ricorra uno dei seguenti criteri:

– iscrizione per la maggior parte del periodo d’imposta nelle anagrafi comunali della popolazione residente;

– domicilio (e cioè la sede principale delle relazioni morali e materiali e degli affari di una persona fisica ex art. 43, comma 1, cod. civ.) nel territorio dello Stato per la maggior parte del periodo d’imposta;

– residenza (e cioè il luogo di dimora abituale della persona ex art. 42, comma 2, cod. civ.) nel territorio dello Stato per la maggior parte del periodo d’imposta.

Il richiamo operato alle norme del codice civile che definiscono domicilio e residenza consente di ritenere che, ai fini dell’acquisto della qualifica di residente ai fini fiscali, non sia richiesta la continuatività della permanenza nel territorio dello Stato ma sia sufficiente anche una presenza frazionata purché complessivamente tale da rappresentare la maggior parte del periodo d’imposta.

A fini antielusivi il legislatore ha poi introdotto nello stesso art. 2 citato il comma 2 bis con il quale si introduce una presunzione (relativa) di residenza nei confronti dei cittadini italiani pur cancellati dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in uno degli Stati o territori indicati nel D.M. 4 maggio 1999, in quanto aventi un regime fiscale di tipo privilegiato.

Per quanto riguarda la definizione di non residente, sia se si ha riguardo alle persone fisiche che agli enti, non si rinviene una specifica norma che la contempli; per cui la qualifica di non residente, quando ad essa sono collegati gli effetti fiscali che vedremo più avanti, è data dall’assenza delle condizioni sopra vista che danno luogo alla residenza.

Altra qualifica preordinata all’esame delle disposizioni che disciplinano la tassazione degli immobili è, come si è già detto, quella legata all’essere il reddito prodotto o meno in Italia.

In linea generale deve affermarsi che il legislatore ha previsto all’art. 23 del TUIR (era l’art. 20 nella formulazione precedente alle modifiche apportate con il D.Lgs. n. 344 del 2003) una serie di criteri eterogenei di collegamento per identificare quali redditi possono reputarsi prodotti nel territorio dello Stato e che fanno riferimento all’ubicazione della fonte reddituale o al soggetto che eroga il reddito o alla localizzazione dell’attività produttiva di reddito.

Si tratta di criteri che, benché basati su una finzione giuridica (“…si considerano prodotti…”), danno origine ad una presunzione assoluta in conseguenza della quale i redditi indicati nel citato art. 23 sono sempre considerati prodotti nel territorio dello Stato.

Per quanto riguarda specificamente i redditi prodotti dagli immobili, il criterio adottato dal legislatore è certamente fondato sulla particolare natura della fonte e, pertanto, gli stessi si considerano prodotti nel territorio dello Stato quando gli immobili sono ivi situati.

Poiché la presenza di un immobile (terreno o fabbricato) nel territorio dello Stato, anche alla luce delle disposizioni non necessariamente fiscali che disciplinano l’assetto ed il controllo del territorio, è facilmente appurabile, ne discende che il soggetto passivo è tanto il residente tanto il non residente quando possiedono tale immobile a titolo di proprietà, enfiteusi, usufrutto o altro diritto reale per il periodo d’imposta in cui si è verificato il possesso.

Il reddito che ne deriva è definito come reddito fondiario il quale, a mente dell’art. 25 del TUIR (già art. 22), è quello inerente a terreni e fabbricati situati nel territorio dello Stato che sono o devono essere iscritti, con attribuzione di rendita, nel catasto dei terreni o nel catasto edilizio urbano.

Se l’accertamento di tale categoria di reddito per l’immobile situato nel territorio dello Stato si presenta certamente in modo agevole per l’Amministrazione Finanziaria, facilitata dalla possibilità di incrociare i dati indicati nelle dichiarazioni dei redditi (anche dei non residenti, i quali sono tenuti per effetto delle norme sopra richiamate, a presentare il modello Unico) con i dati presenti al catasto, il discorso si complica notevolmente qualora l’immobile posseduto dal residente è situato all’estero.

1. LA TASSAZIONE DEGLI IMMOBILI DETENUTI ALL’ESTERO

L’adozione da parte del legislatore nazionale del criterio di tassazione del reddito mondiale brevemente descritto nel capitolo precedente comporta per il residente la necessità di sottoporre a tassazione in Italia gli immobili di cui ha il possesso o altro diritto reale anche se tali immobili sono situati all’estero.

Tuttavia proprio l’essere la fonte del reddito situata fuori dai confini nazionali (e dunque fuori dallo spazio in cui la norma italiana può produrre i suoi effetti cogenti) comporta alcuni problemi sia sotto il profilo della quantificazione del reddito stesso sia, almeno dal punto di vista dell’Amministrazione Finanziaria, in merito alla possibilità di accertamento e già in parte illustrati nella premessa al presente lavoro.

Circoscrivendo l’analisi alla tematica della quantificazione del reddito dell’immobile situato all’estero, la complessità deriva dalla necessità di tener conto, come meglio vedremo a breve, sia di norme di diritto estero (per la quantificazione del reddito stesso e per la applicazione dell’imposta estera) sia di norme di diritto internazionale (convenzionale) sia di norme di diritto interno (che danno luogo ad obblighi dichiarativi, di calcolo e versamento d’imposta ed eventualmente di credito d’imposta estera).

Iniziamo l’analisi delle norma di diritto interno premettendo che già con l’acquisto dell’immobile all’estero si pongono una serie di questioni connesse anche alla disciplina del “monitoraggio fiscale” di cui si darà conto nel capitolo quarto.

Mentre il possesso di un immobile nel territorio dello Stato italiano produce redditi inquadrati nella categoria dei “redditi fondiari” descritta nel capitolo primo, il possesso di immobili all’estero viene ricondotto ad una diversa categoria reddituale, quella dei “redditi diversi”. E difatti l’art. 67 del TUIR (già art. 81), comma 1, lettera f), dispone che costituiscono redditi diversi i redditi degli immobili situati all’estero.

Ai fini della quantificazione del relativo reddito l’art. 70 del TUIR (già art. 84) comma 2, dispone che i redditi dei terreni e fabbricati situati all’estero concorrono alla formazione del reddito complessivo per:

– l’ammontare netto risultante dalla valutazione effettuata dallo Stato estero per il corrispondente periodo d’imposta;

– l’ammontare percepito, ridotto del 15%, se il fabbricato non è soggetto ad imposte nello Stato estero.

Sulla base della disposizione indicata, si può osservare come gli obblighi fiscali a carico del contribuente variano a seconda che l’immobile sia produttivo di reddito (fattispecie che si realizza quando il bene è locato o soggetto a tassazione nel Paese in cui è situato) oppure non sia produttivo di reddito.

Relativamente agli immobili non produttivi di reddito, intendendo per tali quelli non concessi in locazione, né sottoposti a tassazione nel Paese di ubicazione, si osserva che non deve essere dichiarato alcun reddito.

Quanto agli immobili produttivi di reddito, occorrerà distinguere le seguenti ipotesi:

– nel caso in cui l’immobile è locato e il reddito derivante dalla locazione è assoggettato a imposta nello Stato estero, occorrerà dichiarare in Italia lo stesso reddito dichiarato all’estero;

– nel caso in cui l’immobile è locato e il reddito derivante dalla locazione non è assoggettato a imposta nello Stato estero, occorrerà indicare il canone annuale percepito al netto della riduzione forfetaria del 15%;

– nel caso, infine, in cui l’immobile viene tassato nel Paese estero in base alla rendita catastale o sulla base di criteri similari, l’importo da dichiarare coincide con la valutazione netta dell’immobile effettuata nello Stato estero.

Con riferimento alla vendita dell’immobile, l’art. 67 comma 1, lettera b) del TUIR dispone che sono imponibili in Italia le plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso dei beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni, con esclusione di quelli acquisiti per successione o donazione nonché delle cessioni aventi ad oggetto la prima casa effettivamente adibita ad abitazione.

Poiché il citato art. 67 non specifica che l’immobile ceduto deve trovarsi esclusivamente nel territorio dello Stato, ne discende che la norma opera anche qualora l’immobile ceduto è situato all’estero.

Nel caso di immobile produttivo di reddito, pertanto, il contribuente dovrà dichiarare il reddito tra quelli diversi compilando il quadro RL nonché compilare il modulo RW secondo le modalità che saranno indicate più avanti nel capitolo appositamente dedicato.

3. L’APPLICAZIONE DELLE CONVENZIONI INTERNAZIONALI CONTRO LA DOPPIA IMPOSIZIONE

Si è detto nel capitolo precedente come, nel caso in cui un residente in Italia possieda uno o più immobili situati all’estero, si pongano problemi di coordinamento di norme provenienti da ordinamenti di Stati diversi,

La prima questione che si pone alla nostra attenzione è connessa all’individuazione dello Stato al quale spetterà il potere di imposizione, tra lo Stato di residenza del possessore o quello in cui è prodotto il reddito, ovverosia lo Stato di ubicazione del cespite.

Gli Stati moderni, consapevoli dell’esistenza di tale problema hanno cercato di trovare un accordo per stabilire la competenza impositiva ma soprattutto per porre rimedio al fenomeno della doppia imposizione internazionale che, in caso di contemporaneo prelievo di imposta, si verifica a danno del contribuente.

Lo strumento convenzionale tipico per la soluzione di tali questioni è individuato nelle convenzioni contro le doppie imposizioni, per la cui sottoscrizione si utilizza in generale un modello elaborato in sede OCSE, al quale sono poi apportate le modifiche richieste dai singoli casi.

L’art. 6 del citato modello prevede che “i redditi derivanti da beni immobili […] sono imponibili nello Stato contraente in cui detti beni sono situati”.

Il principio risolutivo, pertanto, viene in via generale individuato nella “tassazione in base al luogo di ubicazione dei beni” (fonte di produzione del reddito) e a tale principio fanno riferimento la quasi totalità delle convenzioni sottoscritte dall’Italia.

Se ad una prima lettura la disposizione appare chiara nell’individuare un solo Stato competente per l’attuazione del prelievo fiscale, l’interpretazione rigorosa che della stessa viene fatta in modo pressoché unanime porta a precisare che tuttavia non può dirsi escluso il potere impositivo anche dell’altro Stato.

La formulazione della norma, infatti, non afferma nessun principio di esclusività di potere per uno Stato e di rinuncia da parte dell’altro Stato, così come invece si ricava dall’utilizzo di formule del tipo “i redditi sono imponibili soltanto nello Stato in cui…”.

L’evidente conseguenza di una tale impostazione porta ad ammettere che, pur in presenza di una convenzione contro la doppia imposizione, nei confronti dei redditi immobiliari esiste generalmente un potere impositivo concorrente tra gli Stati interessati (ovverosia lo Stato dove si trova l’immobile e lo Stato in cui risiede il contribuente), con potenziale doppia imposizione a carico del contribuente.

Il citato art. 6, a ben vedere, si limita a disporre la tassazione del reddito degli immobili nello Stato in cui sono ubicati senza mai escludere la loro tassazione nel luogo di residenza del possessore se diverso da quello di ubicazione.

D’altro canto l’allora Ministero delle Finanze ha affermato che “anche in base alle norme convenzionali, i redditi possono comunque subire una doppia imposizione; basti pensare, ad esempio, ai redditi di immobili per i quali, generalmente, è prevista l’imponibilità sia nel Paese ove l’immobile è sito, sia nel Paese di residenza del beneficiario del reddito”.

Alla stessa conclusione, ovverosia alla previsione di un regime di tassazione di tipo concorrente, si perviene anche per quanto riguarda l’altra tipologia di reddito proveniente da immobili posseduti all’estero, qual è l’eventuale plusvalenza emergente dalla vendita dello stesso.

In tal caso, infatti, deve essere preso in considerazione l’art. 13 del modello OCSE il quale, benché rubricato “Utili di capitale”, nel primo comma dispone che “gli utili che un residente di uno Stato contraente ritrae dall’alienazione di beni immobili di cui all’art. 6 e situati nell’altro Stato contraente sono imponibili in detto altro Stato”.

La lettura della riportata disposizione ripropone le stesse considerazioni già esposte per l’art. 6 alle quali si può aggiungere che la quasi totalità delle convenzioni sottoscritte dall’Italia riporta sul punto la medesima formulazione.

Quanto sopra esposto porta ad affermare che sia in ambito di redditi immobiliari sia in ambito di plusvalenze dall’alienazione di immobili all’estero le convenzioni internazionali affermano il regime della tassazione concorrente.

Ciò posto, la convenzione internazionale assume il suo valore più determinante nella previsione degli strumenti volti ad eliminare la duplicazione d’imposta che, come detto prima, può comunque verificarsi.

Le concrete modalità di eliminazione della doppia imposizione sono disciplinate dall’art. 23 dello stesso Modello OCSE che propone agli Stati contraenti di optare tra le due possibilità di cui agli artt. 23A e 23B.

Il primo articolo prevede il metodo cosiddetto dell’esenzione, nelle due varianti dell’esenzione totale e dell’esenzione progressiva.

Il secondo prescrive il metodo del credito d’imposta ordinario sulla base del quale lo Stato di residenza di un soggetto che percepisce un reddito imponibile nell’altro Stato, nel momento in cui quest’ultimo esercita (sul medesimo reddito) la propria potestà impositiva, deve accordare al dichiarante una detrazione dall’imposta sul reddito complessivo per un importo pari all’imposta pagata nell’altro Stato.

La scelta operata dallo Stato in relazione all’uno o all’altro metodo risolutivo della doppia imposizione produce, tuttavia, nei confronti del contribuente interessato, effetti diversi.

Si ritiene, infatti, che l’adozione del metodo del credito d’imposta, a differenza di quanto accade nel primo metodo, comporti per il contribuente comunque un onere ulteriore che è quello di richiedere a rimborso al proprio Stato l’eventuale imposta estera attraverso la presentazione della dichiarazione dei redditi, previa dichiarazione dello stesso reddito conseguito all’estero.

Posto che le convenzioni internazionali stipulate dall’Italia in massima parte prevedono l’utilizzo del credito d’imposta ma non contemplano misure operative, si ritiene che per le concrete modalità di funzionamento dovrà farsi riferimento alle disposizioni di diritto interno ed in particolare all’art. 165 del TUIR (già art. 15), il quale stabilisce che le imposte pagate nello Stato estero “a titolo definitivo […] sono ammesse in detrazione dall’imposta netta fino alla concorrenza della quota di imposta italiana corrispondente al rapporto tra i redditi prodotti all’estero e il reddito complessivo al lordo delle perdite di precedenti periodi di imposta ammesse in diminuzione […] La detrazione […] deve essere calcolata nella dichiarazione relativa al periodo di imposta cui appartiene il reddito prodotto all’estero al quale si riferisce l’imposta […] a condizione che il pagamento a titolo definitivo avvenga prima della sua presentazione. […] La detrazione non spetta in caso di omessa presentazione della dichiarazione o di omessa indicazione dei redditi prodotti all’estero nella dichiarazione presentata […]”.

Appare a questo punto evidente che tutte queste condizioni non sono affatto previste dalle norme convenzionali, che pur prevedono il riconoscimento del credito d’imposta, per cui ci si potrebbe chiedere se, nell’ipotesi di omessa dichiarazione in Italia del reddito derivante da immobili situati in un Paese straniero (reddito invece dichiarato in detto Stato) con il quale l’Italia ha stipulato una Convenzione contro la doppia imposizione, l’imposta pagata all’estero debba essere comunque riconosciuta dall’Italia in sede di eventuale accertamento, non contemplando la norma pattizia alcuna limitazione anche di natura decadenziale alla sua spettanza, come al contrario fa la norma interna.

La soluzione alla questione può essere rilevata osservando come l’adempimento dichiarativo è stata posto allo scopo di evitare che il contribuente non dichiari in Italia il reddito estero e detragga comunque l’imposta pagata definitivamente all’estero, magari nell’anno successivo a quello in cui doveva essere dichiarato il reddito di fonte estera.

Pertanto, nell’ipotesi in cui il contribuente non abbia dichiarato i redditi degli immobili situati all’estero, in caso di accertamento per omessa dichiarazione degli stessi, al contribuente potrebbe comunque non essere riconosciuto il credito d’imposta, sia per effetto del citato art. 165, sia, in ogni caso, per effetto del decorso del predetto termine decadenziale.

4. LA DISCIPLINA DEL QUADRO RW DEL MODELLO UNICO

La normativa sul cosiddetto “monitoraggio fiscale” (collegata inequivocabilmente con la tassazione dei redditi di fonte estera) ha origine nel 1990 con l’adozione del D.L. 28 giugno 1990, n. 167 (convertito con modificazioni in L. 4 agosto 1990, n. 227 e successivamente ulteriormente modificato dal D.Lgs. 21 novembre 1997 n. 461) dal titolo “Rilevazione a fini fiscali di taluni trasferimenti da e per l’estero di denaro, titoli e valori”.

Tale normativa, finalizzata a mantenere concrete modalità di controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria sui redditi di fonte estera è, peraltro, coerente con il principio della tassazione su base mondiale operante nel nostro ordinamento per i soggetti residenti e descritto nel precedente capitolo primo.

I contribuenti residenti in Italia interessati alla normativa in questione sono le persone fisiche, le società semplici ed i soggetti a queste equiparate nonché gli enti non commerciali. Tali soggetti, qualora al termine del periodo di imposta, detengano investimenti all’estero ovvero attività estere di natura finanziaria, attraverso cui possono essere conseguiti redditi di fonte estera imponibili in Italia, devono indicarli, anche se non sono intervenute movimentazioni, nella dichiarazione dei redditi, anche in caso di esonero, su apposito modulo conforme al modello approvato con Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate (modulo RW).

L’obbligo di dichiarazione non sussiste, comunque, se l’ammontare complessivo degli investimenti e attività al termine del periodo di imposta, ovvero l’ammontare complessivo dei movimenti, effettuato nel corso dell’anno, non supera l’importo di € 12.500.

Nell’ammontare complessivo vanno però computati tutti i trasferimenti e quindi sia quelli verso l’estero che quelli dall’estero.

Tali obblighi coinvolgono gli investimenti effettuati anche all’interno della UE.

Per gli importi in valuta estera si deve far riferimento ai valori di cambio indicati dal Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate pubblicato annualmente, di norma nel mese di febbraio.

Ai fini sia descrittivi che più propriamente operativi è utile precisare che il citato quadro si compone di 3 sezioni, ciascuna composta da più righi; ogni sezione risponde a diverse esigenze dichiarative e precisamente:

Prima Sezione – indicazione dei trasferimenti da o verso l’estero di denaro titoli e valori mobiliari in genere attraverso non residenti, senza il tramite di intermediari istituzionali o professionali, e per ragioni diverse dagli investimenti all’estero di natura finanziaria;

Seconda Sezione – riepilogo e quantificazione delle consistenze di tutti gli investimenti all’estero, finanziari e non, alla data del 31 dicembre 2004, attraverso cui possono essere conseguiti redditi esteri imponibili in Italia;

Terza Sezione – strettamente collegata alla precedente sezione II, rileva i flussi dei trasferimenti da, verso e sull’estero che hanno interessato gli investimenti esteri e le attività estere di natura finanziaria nel corso dell’anno in forma diretta ovvero attraverso intermediari residenti o non; l’obbligo di tale dichiarazione sussiste anche nel caso in cui al 31/12 il soggetto dichiarante non detenga più gli investimenti all’estero.

L’acquisto, il possesso nel tempo nonché la vendita di un immobile all’estero sono fattispecie potenzialmente idonee ad interessare ciascuna delle sezioni sopra descritte nei termini che seguono.

L’acquisto di un immobile all’estero coinvolge la disciplina del “monitoraggio fiscale” in merito al trasferimento verso l’estero del denaro necessario all’acquisto e, pertanto, tale fattispecie interessa potenzialmente la citata sezione I del modulo RW. Tuttavia l’obbligo di compilazione della citata sezione sussiste esclusivamente al verificarsi congiunto delle seguenti ipotesi:

– importo complessivamente trasferito nel corso dell’anno superiore ad € 12.500;

– deve trattarsi di trasferimenti non legati a investimenti esteri o ad attività estere di natura finanziaria (in tal caso, infatti, viene di regola richiesta la compilazione della sezione III del quadro RW);

– trasferimenti eseguiti senza avvalersi di intermediari (banche, Sim, società finanziarie, eccetera) residenti nel territorio nazionale. Ciò in quanto, nel caso in cui intervengano detti intermediari, l’obbligo di dichiarazione degli importi trasferiti sussiste in capo a questi.

Le sezioni II e III del citato modulo RW vengono invece interessate dalle seguenti ipotesi:

– possesso al termine del periodo d’imposta di investimenti all’estero e di attività di natura finanziaria di ammontare superiore ad € 12.500 attraverso cui possono essere conseguiti redditi di fonte estera. In questo caso il contribuente è tenuto alla compilazione della sezione II per ogni anno di possesso indicando il valore dell’immobile;

– trasferimenti da o verso l’estero e sull’estero, che hanno interessato trasferimenti all’estero e attività estere di natura finanziaria, per importi superiori ad € 12.500. Tale obbligo dichiarativo sussiste soltanto per le operazioni collegate ad un investimento estero (anche di tipo immobiliare) astrattamente suscettibile di produrre un reddito imponibile in Italia, anche se al termine dell’anno il contribuente interessato non detiene più l’investimento o il rapporto di natura finanziaria.

E’ importante precisare che, come chiarito dalle istruzioni del modello Unico alla compilazione del quadro RW, l’obbligo di dichiarazione in questi casi sussiste qualunque sia l’origine delle attività finanziarie e degli investimenti detenuti all’estero (ad esempio donazione o successione) e qualunque sia la modalità con cui sono stati effettuati i trasferimenti che hanno interessato tali attività (attraverso intermediari residenti, non residenti o in forma diretta tramite trasporto al seguito).

Sulla base di quanto esposto prima e nei capitoli precedenti l’obbligo di compilazione e presentazione del modulo RW (al limite anche solo di questo) sussiste pertanto:

– in ogni caso e per il valore dell’immobile (se superiore ad e 12.500), quando l’immobile è soggetto nello Stato estero ad imposte sui redditi;

– qualora nello Stato estero non siano applicate imposte sui redditi, quando l’immobile è idoneo a produrre redditi tassati in Italia, come nel caso della locazione ovvero della vendita dello stesso con emersione di plusvalenza, secondo le gia citate norme di cui rispettivamente all’art. 70, comma 2, e all’art. 67, comma 1, lettere a) e b) del TUIR.

Se l’immobile nello Stato estero non è soggetto ad imposte e non è locato (dunque non produttivo di redditi tassabili in Italia), se ne deduce che non sussiste alcun obbligo di presentazione del modulo RW.

Nel caso in cui dall’utilizzo dell’immobile sito all’estero si conseguano redditi tassabili in Italia, all’obbligo di presentazione del quadro RW si affianca evidentemente l’obbligo di dichiarazione del reddito stesso nel quadro QL dei “redditi diversi”.

I commi 4 e 5 dell’art. 5 del DL 167/1990 dispongono che la violazione degli obblighi previsti dai commi 1 e 2 dell’art. 4 è punita con la sanzione amministrativa dal 5% al 25% dell’ammontare degli importi non dichiarati, nonché con la confisca di beni di corrispondente valore.

Come precisato dalla circolare 98/E del 17 maggio 2000, le sanzioni relative alle violazioni del modulo RW sono legate alle dichiarazioni dei redditi ed hanno natura tributaria e, pertanto, la competenza per l’irrogazione delle stesse deve essere riconosciuta, ai sensi dell’art. 16, comma 1, del D.Lgs. 472/1997 all’ufficio dell’Agenzia delle Entrate competente in base al domicilio fiscale del contribuente inadempiente.

Le sanzioni amministrative, negli importi descritti, trovano applicazione alle violazioni commesse dopo l’entrata in vigore del D.L. 350/2001 (introduttivo del c.d. “scudo fiscale” e dunque per le dichiarazioni presentate dal 25 settembre 2001 in poi). Per le violazioni commesse a partire dall’entrata in vigore del D.Lgs. 471/1997 (ossia a partire dal modello Unico per il periodo d’imposta 1997) e fino alla data di entrata in vigore del D.L. 350/2001 trova applicazione ai sensi dell’art. 3, comma 3, del D.Lgs. 472/1997 (c.d. favor rei) la più favorevole sanzione amministrativa di cui all’art. 8 del citato D.Lgs. 471/97 (da € 258 ad € 2.065).

L’aggravamento della sanzione pecuniaria è stata introdotto, come si può notare, contestualmente al c.d. “scudo fiscale”, nell’evidente obiettivo di promuovere l’utilizzo di questa speciale “sanatoria” anche al fine di evitare nuove e più gravose sanzioni, tra le quali merita una puntualizzazione la già citata sanzione della “confisca di beni di corrispondente valore”.

Dalla circolare dell’Agenzia delle Entrate, n. 9/E del 30 gennaio 2002 si desume che la confisca è una particolare tipologia di sanzione amministrativa irrogabile da parte degli uffici finanziari; tuttavia per la stessa mancano, allo stato, le disposizioni operative (e pertanto non può di fatto essere attuata) nonché deve ancora essere risolto il problema in merito a cosa si debba intendere per “corrispondente valore”, quale misura della sanzione.

Al riguardo le tesi esposte dalla dottrina sono riconducibili a due posizioni: da un lato vi è chi ritiene che il valore dei beni da confiscare debba corrispondere al valore della sanzione irrogata mentre dall’altra vi è chi ritiene che debba essere commisurato al valore dei beni non dichiarati.

La seconda interpretazione appare certamente più penalizzante nei confronti del contribuente colpito, tuttavia è da preferire in quanto è la sola che sembra tener conto della ratio ispiratrice della norma, da individuarsi anche alla luce del contesto evolutivo delle disposizioni sul “monitoraggio fiscale”.

L’inserimento di tale nuova sanzione, infatti, nasce proprio al fine di promuovere l’utilizzo dello “scudo fiscale” e dunque l’emersione di beni e capitali detenuti all’estero, a fronte del quale viene posta una sanzione che svolge la sua funzione deterrente non già se si pone come garanzia della sanzione amministrativa irrogata (cosa che si verifica se si sposa la prima tesi) ma solo se si realizza come grave rischio di perdita di beni per un valore identico a quelli situati all’estero.

L’analisi della disciplina sul monitoraggio fiscale può essere conclusa facendo riferimento, in ultimo, alla disciplina, di natura evidentemente para-sanzionatoria, prevista dall’art. 6 del D.L. 167/1990.

La citata disposizione prevede infatti, ai soli fini delle imposte dirette e per i soggetti di cui al comma 1 dell’art. 4 (ovverosia le persone fisiche, gli enti non commerciali, e le società semplici ed equiparate tenuti agli adempimenti prima descritti), una presunzione relativa di fruttuosità, nella misura pari al tasso ufficiale medio di sconto vigente in Italia nei singoli periodi d’imposta, con riguardo alle somme in denaro trasferite o costituite all’estero, qualora gli stessi soggetti non abbiano provveduto a dichiarare i redditi effettivi.

Tale norma, tuttavia, non appare applicabile ai casi esaminati di immobili detenuti all’estero sia in quanto la norma (e la stessa presunzione) hanno valenza solo se riferite a somme di denaro o a titoli sostitutivi dello stesso, sia in considerazione del fatto che, qualora il contribuente non abbia assoggettato a tassazione in Italia il reddito derivante dall’immobile, lo stesso sarà accertato dagli uffici impositori secondo le forme ordinarie, e cioè come reddito diverso, e non già in base al citato articolo 6.

Paolo Costagliela

Funzionario Agenzia delle Entrate

BIBLIOGRAFIA

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Augusto Fantozzi, Diritto Tributario, UTET 1991, passim e spec. pp. 644 e ss.

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Agostino Nuzzolo e Giancarlo Pezzato, Il monitoraggio fiscale, in Il Fisco nr. 7/2005, fasc. 1, pp. 943 e ss.

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Andrea Trevisani, Modificato il regime di tassazione degli immobili non strumentali locati da parte di imprese, in Corriere Tributario, IPSOA, nr. 41/2005, pp. 3220 e ss.

Gianpaolo Valente, I redditi degli immobili situati in Italia e all’estero, in Il Sole 24 ore, Contabilità Finanza e Controllo del 25 maggio 2001, N. 6, p. 679

Fonte: Rivista della Scuola superiore dell’economia e delle finanze

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